C’è un filo preciso che lega la bella puntata di “Petrolio” del 8 settembre ad una riflessione iniziata in RAI a dicembre 2013 con le puntate monografiche che andavano sotto il nome di “12 idee per la crescita”: un filo a cui ho avuto l’opportunità di contribuire anche io.
Dopo tanti pianti sul “muro crollato” di Pompei (parafrasi neanche tanto spiritosa del “latte versato”), il filo conduttore comincia da qui: se non ci sono soldi, tutti i soldi che servirebbero per acquisire e restaurare e conservare tutti i beni culturali che abbiamo in Italia (soldi infiniti, a ben vedere), come si fa?
I soldi non sono solo pubblici, dello Stato, e non passano solo dal Ministero: questa è una visione retrograda e “sovietica” che si scontra con tutto, ormai. Tranne che con un manipolo di combattenti e reduci, asserragliati in qualche Soprintendenza.
I soldi, però, sono nell’economia e nella società: nel mecenatismo (Ercolano), nelle imprese (Colosseo), nelle tasche dei cittadini residenti ma soprattutto in quelle, più capienti, dei turisti.
Ma i beni culturali (ed i loro “Conservatori”), per raggiungere il fine ultimo della conservazione, devono accettare un po’ di purgatorio della “valorizzazione”, che letteralmente vuol dire fare ricavi e non generare solo costi.
Tutti sono capaci di indignarsi e reclamare a gran voce fondi pubblici, molti di meno sono disponibili a perdere un po’ di verginità e ad andare a cercare i ricavi dove essi sono, ad esempio lavorando sul prodotto (“che cosa proponiamo oltre alla contemplazione?”), sui tempi di apertura (che devono inseguire il pubblico, e non frustrarlo), sui prezzi (uguali per tutti è sovietico, revenue management è contemporaneità).
In Petrolio queste cose si ritrovano tutte, e tante altre. Certo, divulgate e sdrammatizzate (vedi i cameos di marco Presta), ma almeno, per una volta, dette al pubblico in una fascia oraria non impervia. Complimenti.