Crociere: un ripensamento oltre la tragedia

È ormai chiaro che il disastro della Costa Concordia non è stato solo il frutto di una fatalità o di un errore umano. Da anni infatti l’industria delle crociere è cresciuta senza limiti e senza regole. Navi sempre più mastodontiche, porti smisurati per accoglierle, lavoratori reclutati nei paesi più poveri per salari minimi. Un impatto ambientale molto rilevante, un contributo economico alle destinazioni molto contenuto. Questo modello non corrisponde alle esigenze di sviluppo turistico del nostro Paese.

Già l’Osservatorio EBNT 2011 (1) aveva iniziato a porre i primi punti interrogativi circa l’effettivo sviluppo e le ricadute economiche ed occupazionali di un comparto che, se ci si fermava alle dichiarazioni dei grandi Cruise Operators (le grandi compagnie crocieristiche come Costa), non avrebbe dovuto conoscere limiti alla propria espansione.
Come noto, in poco meno di trent’anni la vacanza crocieristica ha subito una profonda trasformazione, passando da genere di lusso a prodotto di massa, fino a raggiungere solo in Europa la ragguardevole cifra di 5,5 milioni di clienti imbarcati nel 2010.

La dinamica è stata trainata per intero dai Cruise Operators, che hanno saputo attuare una costante profilazione sui vari segmenti del mercato, consentendo anche alle famiglie e ai giovani di accedere a questo mercato; e poi praticando la ricerca di nuove destinazioni e di nuove nicchie, in modo da stimolare una sempre maggiore domanda per un prodotto che ha ormai ammortizzato i propri costi di lancio, e che è quindi in grado di produrre profitti consistenti, seppur con i margini declinanti tipici della fase di maturità.
Un’offerta straordinariamente dinamica e competitiva, che ha saputo coniugare i più importanti riferimenti della Marca delle destinazioni (vedi tra tutti l’Italia e Roma, ma anche Pisa e Firenze) con un mezzo di fruizione securizzante quanto solo una nave può esserlo, almeno fino alla tragedia del Giglio. Navi sempre più grandi e “rivolte su se stesse”, perché il vero business in questa fase consiste nel massimizzare il tempo di permanenza e la spesa a bordo dei crocieristi (2).

Porti sempre più somiglianti a terminali container, realizzati a colpi di investimenti pubblici ingentissimi da parte delle Autorità Portuali in competizione tra di loro, e senza un quadro nazionale di riferimento: banchine lunghe chilometri per consentire l’accosto di molti giganti del mare contemporaneamente, con enormi piazzali per contenere le centinaia di pullman necessari alle escursioni, svincoli autostradali agevoli per portare nel minor tempo possibile gli escursionisti nelle città d’arte, dove magari non scenderanno neppure a terra. Ma d’altra parte, Autorità Portuali molto restie a dichiarare i ricavi che traggono da questi traffici, adducendo motivi di “competitività” (appunto).

L’analisi degli impatti economici svolta a livello europeo (3) segnala inoltre un dato non del tutto evidente all’opinione pubblica, e cioè che il vero e proprio effetto turistico delle crociere è piuttosto limitato: fatto 100 il totale dell’impatto della spesa del comparto crocieristico (diretto, indiretto, indotto), solo il 3,8% beneficia l’ospitalità in senso stretto, il 6,2% il commercio, il 13,4% il sistema dei trasporti compresi i Cruise Operators, mentre il 37% va al settore manifatturiero, con la cantieristica in prima fila. E i dati occupazionali sono dello stesso segno, enfatizzati anche dalle retribuzioni unitarie, che sono le più basse di tutta la filiera.
Sulle condizioni –non solo economiche- di lavoro a bordo delle navi da crociera si parla poco: ci sono studi lontani nello spazio e nel tempo, condotti soprattutto in Nord America (4). Ma è sotto gli occhi di tutti, a partire dalle immagini che scorrono in questi giorni, che i lavoratori a bordo sono in larghissima maggioranza stranieri (Filippini, Indonesiani, Indiani, Peruviani, e così via) reclutati in madre patria con contratti di lavoro che sfuggono alle normative europee. E questo rientra perfettamente nelle logiche di massimizzazione del business dei Cruise Operators, anche se poi magari, come puntualmente accaduto, persino la difficoltà comunicativa enfatizza ogni problema in caso di emergenze.

Nel Mediterraneo l’Italia si colloca senza dubbio in una posizione di preminenza. In vetta ai porti italiani sta Civitavecchia con oltre 2 milioni di passeggeri, seguono Venezia, Napoli e Savona. Ma la graduatoria subisce delle variazioni a seconda della connotazione che assume ciascuno scalo: Home Port, ovvero punto di partenza o arrivo della crociera (quelli il cui territorio guadagna di più), oppure Port of Call, tappa intermedia del viaggio.

Ma anche prima della tragedia del Giglio erano ormai diverse le voci che richiamavano ad un maggiore realismo, a partire proprio dai numeri rilevati dall’Osservatorio EBNT, e del rapporto pubblicato a luglio 2011 dall’European Cruise Council: la crescita sembrava aver smorzato il proprio impeto, soprattutto in termini di valore economico: le spese dirette dell’industria crocieristica in Europa, peraltro ingentissime (14 miliardi di dollari) erano sostanzialmente ferme dal 2008, pur a fronte di un aumento di passeggeri ancora consistente.
Era quindi in calo la redditività, come dichiarato ormai apertamente anche da alcuni operatori, come RCCL Italia. C’era già il rischio di una fase di maturità, mentre addirittura la cantieristica navale (i cui andamenti precedono di alcuni anni quelli delle crociere) registrava cali assoluti, sia di fatturato che di occupazione. Che si sono poi concretizzati anche nella vicenda Fincantieri.
Adesso tutto questo sembra chiaro e risaputo, quasi scontato. Ma l’industria delle crociere ha sempre investito moltissimo in comunicazione, e parlarne, prima di oggi, sembrava stonato.

(1) “Osservatorio sul traffico delle Crociere nel Mediterraneo” promosso dall’Ente Bilaterale Nazionale del Turismo
(2) Si veda al riguardo Farina, “Crociere: la storia dell’hardware è la storia del mercato”, su Turismoeterritorio.com, 2011.
(3) “Contribution of Cruise Tourism to the Economies of Europe”, 2011 edition, elaborato dal G.P. Wild (international) Limited e Business research & Economic Advisors per The European Cruise Council
(4) www.cruiseresearch.org/MR.html

Con l’uscita di questo articolo si è animato da un dibattito su Il Fatto Quotidiano

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