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Come innamorati testardi gli americani non vedono i nostri difetti.
Marta Linsky è docente a Cambridge, Massachussetts, studioso del sistema politico americano ed esperto in una disciplina rara, la formazione dei leader. Lo incontro all’hotel Mandarin di New York per parlare del futuro di Barack Obama dopo le elezioni legislative. Ma il Professor Linsky non risponde subito alle mie domande. Prima comincia col descrivermi la meravigliosa casa che si è comprato sulle colline del Lazio, a un’ora e mezza da Roma. Canta gli elogi della qualità della vita, la simpatia dei vicini con cui ha fatto amicizia, il clima meraviglioso, il cibo sublime. Sua moglie, che è responsabile della grafica di Newsweek, ha imparato perfettamente l’italiano. Il loro obiettivo: accorciare la parte dell’anno che passano negli Stati Uniti, allungare i mesi di “tele-lavoro” dalla loro dimora laziale.

Poco dopo ho appuntamento con il celebre storico inglese Niall Ferguson, autore di opere geniali sul capitalismo. Voglio interrogarlo sul suo prossimo libro ma lui comincia col raccontarmi di Camerino, nelle Marche, dove trascorre tutte le sue vacanze in una villa di amici. Seguono elogi: delle Marche e dei marchigiani, della loro gentilezza, della storia locale, dell’arte, della cucina.
Volo a San Francisco per un’inchiesta sulla battaglia elettorale in California, vado su Valencia Street, nel quartiere messicano della Mission. Voglio assistere in mezzo ai militanti di base al duello in diretta TV tra il democratico Jerry Brown e la repubblicana Meg Whitman per l’elezione a governatore. Quando arrivo nella sede dei Progressive Democrats mi accoglie un volontario che di mestiere fa il camionista-fattorino di FedEx. Appena mi presento come giornalista italiano, ho diritto a effusioni interminabili: ci tiene a raccontarmi della sua vacanza a Roma. “Ah, via Veneto, via Veneto …”, sospira estasiato guardandomi negli occhi con ammirazione, quasi che avesse davanti la reincarnazione di un altro Federico.

Tre episodi che ho vissuto nel giro di un paio di giorni. Persone diverse, ambienti sociali distanti. In comune, il grande amore per l’Italia: un affetto vero, caloroso, nutrito di frequentazioni e di ricordi, di volti e di luoghi venerati. Vivendo qui in America ci si fa l’abitudine. Ho citato tre casi più recenti: scavando un po’ nella memoria potrei elencarne trecento. Fa sempre piacere, per carità, ma a furia di “subire” questi assalti di adulazione, per il proprio paese si rischia di diventare quasi blasé, viziati. Lo si dà per scontato e si perde di vista quel che c’è di straordinario nella nostra popolarità. E’ un privilegio raro, quello che abbiamo: basta nominare il paese da cui veniamo e scatta subito un riflesso di simpatia, brillano gli occhi degli interlocutori, bruciano di voglia di comunicarvi le loro esperienze, tutto ciò che l’Italia ha di stupendo. Credetemi, qui in America non capita lo stesso a un tedesco o a un cinese: i loro paesi possono essere stimati, rispettati, perfino temuti come potenze teconolgiche concorrenti, ma non accendono la passione amorosa.

E poi l’Italia ha un’altra fortuna: beneficia di una storia di “indulgenza plenaria”. Tutto ciò che accade di sgradevole, di preoccupante, perfino di drammatico nel nostro paese, viene ignorato oppure “scartato” dagli americani. Come l’innamorato che testardamente rifiuta di vedere quel difetto fisico sul volto della persona amata, anche loro hanno un’attenzione selettiva. Per gli americani l’Italia è, nell’ordine, associata solo a certe cose. Una città d’arte di cui sono invaghiti e dove vogliono tornare il più spesso possibile. Uno stile di vita fatto di belle case, bei vestiti, oggetti disegnati con un gusto estetico superiore, amore della cultura. Stare in piazza con gli amici. L’opera lirica, il nostro vino, la nostra pasta, tutto il savoir faire che c’è nella nostra tradizione culinaria. Una certa idea della famiglia. Sono, mi direte, immagini un pò stereotipate, da pubblicità del Mulino Bianco? Eppure funzionano anche tra americani elitari, sofisticati. Come quelli, sempre più numerosi che iscrivono i propri figli ai corsi d’italiano non perché siano utili nel business ma come un lusso, uno status symbol, come si studia il violino o la danza classica. L’Italia reale la lascino pure a noi. Non teniamoci questo amore così cieco, che ci scalda il cuore.
Tratta da D Donna de La Repubblica del 30 ottobre 2010