Attrarre investimenti nel turismo: contro i non luoghi e i non dove

Dal libro “Hic et Nunc: contro i non-luoghi e i non-dove, l’attrazione degli investimenti nel turismo” di Stefano Landi , si riporta la prefazione di Vinicio Bottacchiari – Direttore Generale di Sviluppumbria

1. In principio fu la globalizzazione

La crisi mondiale, i cui effetti e l’ampiezza appaiono ancora imprevedibili e forse devastanti, ha spostato l’attenzione di tutti (economisti, sociologi, politici) su dimensioni globali, i macrofenomeni, specie a carattere finanziario, spesso incommensurabili per dimensioni ed incomprensibili per complessità.

Non Siamo in grado di prevedere, ma immaginiamo presto, quando il pendolo tornerà ad oscillare verso la dimensione locale, se non altro come ripiegamento, come atteggiamento regressivo, come ritorno a dimensioni comprensibili e governabili.

Questo, forse, costituisce uno dei limiti più vistosi del dibattito culturale e scientifico, caratterizzato da antinomie, più o meno astratte, tra locale e globale, tra catastrofi ed ottimismi, tra sviluppo e declino: il tema dello sviluppo locale come antidoto alle ricorrenti crisi del globale, come una sorta di surrogato transitorio in attesa della inevitabile ripresa dei cicli positivi dell’economia.

Quindi, in attesa che i sacerdoti autorizzati ricomincino ad officiare i riti dello sviluppo indefinito, garantito dal libero mercato, dalla de-regolazione, della de-materializzazione dell’economia globale, si può, in modo politicamente corretto, lasciare un po’ di spazio alla riflessione critica ed a proposte, persino velleitarie, alternative.

Tanto il poderoso apparato mediatico di cui dispongono i cantori del pensiero unico, riprenderà a magnificare, in materia convincente ed omologante, il migliore mondo possibile, quello in cui vivono, per la verità, solo le classi più agiate dei paesi ricchi.

La nostra convinzione non è cosi modaiola, effimera, consolatoria, residuale, difensiva, autarchica, pauperistica.

Innanzitutto perché non è percorsa da fremiti antagonisti ed alternativi nei confronti della dimensione globale, né luddista nei confronti dell’innovazione tecnologica, né inconsapevole dei livelli straordinari di crescita della qualità e del livello di vita, almeno per più ampi strati della popolazione.

La globalizzazione, infatti, non è una novità, fin dai tempi antichi, basti pensare, uno per tutti, all’impero romano.

Ma solo in alcuni casi ha comportato forme di “genocidio culturale” e sistematica distruzione delle differenze, intese come straoridnarii giacimenti di ricchezza, con processi di omologazione dei comportamenti e dei valori.

E’ obbligatorio svegliarsi una mattina in una camera di un albergo di una grande catena internazionale e non capire in quale Paese o città si sta; o mangiare, ovunque, gli stessi prodotti di grandi catene di fast food? O comprare come souvenir, gli stessi gadgets di plastica, volgari interpretazioni semplificate della cultura artigianale locale?

In un contesto globalizzato, inoltre, è obbligatoria la strada della “divisione internazionale del lavoro” (definizione obsoleta di sapore marxiano, ma ancora efficace) che assegna ad interi territori specifiche funzioni, fondate su “vocazioni” o condizioni socio-economiche, competitive in alcuni fattori (specie sul costo del lavoro) in base a scelte imperscrutabili e discrezionali di un capitalismo senza regole e senza volto?

Trasformando il mondo in una enorme periferia, in un cerchio in cui il centro è ovunque e la circonferenza in nessuna parte.

Abbiamo lavorato e sperimentato, non senza incertezze ed errori, per progetti i sviluppo locale, in tutte le articolazioni, in una logica integrata, fonata sulla identità e sulla differenza.

Di questo vorremmo rendere conto condividere le esperienze, partendo dal tema del turismo, che presta molto, essendo, di fatto, un prodotto “derivato”.

Qualcuno potrebbe ironicamente definirci gli ultimi giapponesi dispersi nelle isole, che continuano a combattere, non spendo che la guerra è finita.

Noi (e mai come in questo caso conta i noi) preferiamo, in maniera post-ideologica, paragonarci a che coltiva e preserva radici forti per progettare un futuro, insieme agli altri, ovunque.

Per costruire, contro il pensiero unico, anestetizzante ed omologante, una “rete di differenze”.

2. Decentramento versus decentralizzazione

Il tema della centralità dello sviluppo locale si p cominciato a porre, in maniera organica ed operativa agli inizi degli anni ’80. In Particolare in Francia, uno dei paesi a struttura amministrativa centralista, tanto da aver coniato l’espressione “Paris et autour le desert”, si è avviata una esperienza significativa, fortemente connotata dal dibattito tra decentramento e decentralizzazione.

Vale a dire operare una scelta politica, amministrativa ed organizzativa tra una struttura centrale con terminali periferici, e una articolazione con più centri decisionali sul territorio.

Una questione mai sufficientemente risolta in quasi tutti i paesi, anche quelli di tipo federale.

Sta di fatto che le riforme istituzionali ed organizzative (quando la burocrazia funziona!) hanno affidato al Governo centrale, sulla base di parametri, indicatori e dati strategici, in coerenza con le direttive comunitarie (ma senza supina accettazione), la definizione delle aree obiettivo e la relativa intensità d’aiuto ammissibile.

Al Governo centrale, altresì, spettava l’elaborazione dei Piano Pluriennali con l’evidenza delle opzioni e priorità strategiche dai singoli territori.

Tuttavia, nel quadro della Programmazione, si avviò, nelle singole Regioni, un processo che avrebbe portato ad una decentralizzazione delle scelte ritenute prioritarie dai singoli territori.

Con ampi programmi di partecipazione e concentrazione, fino ad arrivare ad un effettivo partenariato tra i diversi attori sociali, a livello locale si arriverò alle prime elaborazioni di veri piani e progetti di sviluppo locale.

Vale a dire che le scelte strategiche effettuate a livello locale dovevano essere accompagnate da un impiego delle risorse finanziarie locali verso le priorità individuate a livello regionale e compatibili con gli indirizzi nazionali.

Dunque il budget non era semplicemente una sommatoria di istanze locali, ma il risultato di una armonizzazione condivisa dalle opzioni di sviluppo e delle risorse finanziarie.

L’altro elemento di novità era costituito dal fatto che il risultato della negoziazione, a volte lunga e complessa, era il Contrat du Plan, un effettivo contratto tra le parti di natura giuridica vincolante, dalla cui attuazione, una volta esaurita la fase politica delle definizione delle strategie e dei progetto prioritari, era affidata ad una struttura tecnico-esecutiva, cui venivano affidati anche poteri sostitutivi e comunque operante con procedure snelle e semplificate.

Questa procedura ha, tra l’altro, consentito uso ottimale dei fondi comunitari.

Non sono stati fatti, cioè, progetti perché ci sono linee di finanziamento europeo, ma sono state utilizzate le risorse comunitarie co-finziamento dei progetti mixando e finalizzando ad essi fondi europei, nazionali, regionali e privati con percentuali variabili a seconda delle tipologie.

Il richiamo all’esperienza francese, descritta sempre con il caratteristico linguaggio ricco ed immaginifico in maniera forse più brillante di quanto effettivamente realizzato, può essere tuttavia utile per sottolineare come e esperienze di sviluppo locale possano essere il risultato di riforme sostanziali dell’apparato politico-amministrativo di un Paese.

Copiare, e malamente, modelli altrui solo per gli aspetti più appariscenti, non produce, quasi mai, effetti significativi.

Per questo preferiamo parlare di metodologie, da utilizzare in specifici contesti, piuttosto che di trasferimento di modelli.

In Italia, negli anni ’90, si sviluppò una forte spinta originata più che da istanze locali, troppo spesso frutto di rivendicazioni campanilistiche e di sudditanza nei confronti di ogni potere centrale, verso modelli più centrali sullo sviluppo locale.

In realtà, anche dichiaratamente, la cosiddetta politica dei “cento fiori” che ha portato alla messa in campo di strumenti quali i Patti Territoriali e i Contratti d’Area, prende le mosse da una presa d’atto dell’assenze di qualunque strumento di programmazione, delle politiche di bilancio ispirate a macro-impieghi, dall’incapacità del sistema politico centrale di operare scelte coerenti con i bisogni dei territori, che superassero mere distribuzioni politico-clienterali, della farranginosità e delle linguaggini dall’apparato burocratico-amministrativo.

Si è aperta comunque una stagione ricchissima di spunti innovativi, che ha mobilitato risorse, competenze, intelligenze, capacità progettuali inedite ed insospettate.

Pur pagando pegno al noviziato e all’entusiasmo da neofiti, che spesso hanno prodotto esiti velleitari ed irrealistici (quale Regione non ha sognato una sua Silicon Valley?), la metodologia dello sviluppo locale auto centrato, che facesse leva sulle opportunità, e risorse dei territori, ha prodotto slanci ed aspettative superiori al previsto ed al prevedibile, scontrandosi così con un sistema strutturalmente ed istituzionalmente non attrezzato a fornire risposte tempestive ed adeguate (e certamente non convinte, trattandosi in sostanza di cessione di pezzi di potere decisionale).

Quella che doveva essere un rapporto dialettico tra top-down e botton up, si è rilevato un percorso a una sola via (bottom up) senza una regia, un coordinamento, una programmazione centrale che riuscisse a canalizzare e rendere coerenti le infinite istanze soggettive dei territori. Rilevando così, in maniera impietosa, la funzione di effetto placebo, particolarmente accentuata in situazioni di crisi, dell’apertura alle istanze di modelli diversificati ed autocentrati.

E pensare che la letteratura scientifica e le pratiche economico-finanziarie da tempo propongono ed impongono la necessità di un diverso assetto istituzionale.

Non stiamo qui ad approfondire il vasto dibattito sulla perdita di ruolo, di potere e di significato degli Stati Nazionale, stretti da un lat dalle dimensioni dell’economia e della finanza che li bypassano surclassandoli, nonché dalla affermazione di organismi sopranazionali, come l’unione Europea, cui progressivamente vengono delegate funzioni di regolarizzazione e di governo, e dall’altro dalle progressive spinte autonomiste e federaliste dalla Regioni e dei territori.

Tuttavia appare evidente come la dimensione locale costituisca sempre più la Unità Minima Ottimale di programmazione dello sviluppo.

Ma ciò che richiede un quadro istituzionale, finanziario, amministrativo, decisionale coerente ed efficace.

Rimane sempre non risolto il problema della articolazione effettiva dei poteri e delle forme organizzative della amministrazione pubblica.

Infatti, se il postulato dello sviluppo locale è riferito ad un progetto integrato ed equilibrato tra le diverse componenti dell’economia, l’articolazione delle risorse e degli strumenti, che fanno capo a diversi soggetti, ad esempio Ministeri, differenti nei tempi, nei modi e nelle procedure, connota inevitabilmente una connotazione tra sistema decentralizzato (Regione) e struttura decentrata o centralizzata (Stato).

Come pure l’inadeguatezza, se non l’assenza, di programmazione e di coordinamento evidenzia un altro conflitto tra strumenti operanti per fattori o per settori e l’esigenze di integrazione di risorse coerenti con progetti locali.

Perché, in definitiva, il territorio non è un luogo indifferente che “ospita” attività, ma il soggetto che progetta il suo sviluppo.

La strategia dello sviluppo auto centrato e la metodologia connessa al binomio programmazione e negoziazione, in un contesto di incertezze, anziché ripiegarsi su modelli difensivi ed autarchici, consentono di aprirsi alla competizione ad alla innovazione, sfide nelle quali un territorio mette in campo ed in valore le proprie risorse e potenzialità in un progetto di sviluppo e di crescita condivisi.

Per avere successo, tuttavia, il progetto deve ancorarsi sull’identità e sui valori identificativi, spesso unici, di un territorio, costituiti sulla interazione, sul rapporto dialettico tra dialettico tra sistema socio-culturale e sistema economico.

3. Il territorio come “prodotto”

Le attività e l’assetto di un territorio sono quindi a forma economica ed il prodotto del sistema sociale ed istituzionale.

Per questo la coesione sociale ed il partenariato tra tutti gli attori sono un valore, che, in definitiva, ne costituisce il “capitale sociale”.

Acquista pertanto significato il concetto che all’economia della varietà si accompagna anche quello della varietà delle economie.

Il territorio, dunque, come prodotto della dialettica tra sistema socio-culturale e forma economica, che ha come elemento identificativo l’identità, che è la rappresentazione che se ne fanno osservatori esterni a l’autorappresentazione di chi ci vive.

Non ha molto senso”fotografare” un territorio segnato dai secoli come una icona o una flsa rappresentazione da cartolina (o da presepio), come pure le esigenze poste dalla competizione globale non possono essere una mera assunzione di modelli e stili altrui, partecipando ad un gioco di cui non si conoscono le regole e soprattutto che altri scrivono.

Come dire fare ricorso a massicce dosi di medicina allopatica, con interventi esterni che spesso determinano equilibri entropici, piuttosto che utilizzare forme di “omeopatia economica”, che trova nel proprio organismo gli anticorpi per reagire a quelle che avole appaiono come “pandemie culturali”.

Facendo attenzione, inoltre, sempre per usare una metafora medica, a non “scompensare” un organismo che è fondato su sistemi equilibrati e coerenti, che rigettano innesti non compatibili o interventi che alterano massicciamente singole componenti.

Per dirla con Galilei “le cose sono unite da legami invisibili: non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella”.

Nel caso dell’Umbria, ma non solo, dal dopoguerra ad oggi si è prodotto uno sviluppo economico e sociale equilibrato tra diverse attività e territori, fondato su sistemi locali di produzione che hanno massimizzato il rapporto tra capacità ed iniziativa imprenditoriale e sistema cultuale ed istituzionale favorevole, dando vita ad una forte poliformità dei sentieri di crescita delle imprese (o dei sistemi di impresa).

Si è determinato un apparato economico e produttivo caratterizzato da insiemi puntiformi (o molecolari) con forte flessibilità e capacità adattiva, anche in forme di “anarchie organizzate”, da un sostanziale equilibrio tra settori (industri, artigiana, agricoltura, servizi e turismo) che ha prodotto anche un corretto rapporto tra natura, ambiente ed attività produttive.

Da tempo si tende ad identificare l’universo della piccola e media impresa con il modello dei distretti industriali, che, per quanto suggestivo e di successo, appare sostanzialmente riduttivo.

Leggere infatti in un mondo complesso, variegato, contraddittorio, multiforme, spesso indecifrabile, utilizzando una schematizzazione modellizzante, riduce la complessità, ma porta, fatalmente, al rischio di scambiare il paradigma con la realtà, perché nel territorio e nelle imprese che vi operano ci sono più cose di quanto un modello possa rappresentare.

4. Marketing territoriale, identità e “complicità” fra pubblico e privato

Il nodo della questione, pertanto, torna a porsi nei temi della centralità del territorio, di come la messa in valore dell’insieme delle variabili che ne costituiscono il capitale sociale e di come la qualità e le competenze incorporate nelle istituzioni e nel contrasto locale si raccordano al sistema economico e produttivo, in relazione alle sfide poste dalla competizione, incrementando l’ “interazione situata”, promuovendo alleanza e nuovi sistemi di relazione, valorizzando la multiformità e le differenze.

Non, dunque, una sfida tra pubblico e provato, ma nuove “complicità” per un investimento comune verso una società aperta che decide su se stessa, consapevole dei propri limiti, ma forte della propria diversità.

Marketing territoriale dunque, ma in forma di progetto comune fra territorio e investitori, entrambi protagonisti in modo equo perché sia colto ed evidenziato il “vantaggio emozionale” che è dato dal sistema dei valori di marca espressi.

In nessun settore come il turismo, vero e proprio prodotti derivato della complessità territoriale, è evidente il valore del marketing relazionale: una azione, cioè, che punta a stabilire e rafforzare la relazione che si stringe fra impresa (turistica) e offerta (localizzativa, ma di anche di esperienze, professionalità, cultura, valori) di un dato territorio.

Dall’ambiente naturale e culturale, dagli stili di vita, dai valori, dalle eccellenze, dalle unicità nasce la consapevolezza che qualsiasi azione che voglia rendere gli attori locali soggetti attivi nell’intercettare i flussi di investimento globali debba necessariamente puntare a obiettivi di competitività territoriale prima ancora che economia, creando le condizioni per realizzare la migliore connessione fra offerta e diverse tipologie di domanda.

Occorre dunque rileggere e reinterpretare i valori di identità e ragionare consapevolmente sulle vocazione dei singoli territori e per impostare una politica di promozione in grado di rappresentare i molteplici elementi di unicità.

L’habitat è infatti come un linguaggio complesso: non può essere semplificato, banalizzato, standardizzato. Né può essere semplicemente “acquistato”, applicando al paesaggio naturale e culturale le 4 P del marcenti mix: prezzo, prodotto, posto promozione. E’ un luogo, ora e qui (hic et nunc, con un pizzico di snobbismo antianglosassone).

Una espressione che, come riporta wikipedia (concessione all’omologazione tecnologica) “esprime la realizzazione di una predisposizione e di un atteggiamento dell’animo in perfetta armonica integrazione non solo verso se stessi ma anche nei confronti della realtà esterna e circostante”.

È legando direttamente l’investimento turistico alle risorse del territorio, valorizzandone l’hic et nunc, che si massimizza la distanza che esiste fra una regione come l’Umbria e i non-luoghi del resto del mondo.

Ed è questo principio di irreplicabilità, che ora (ma non solo ora, in un mondo a instabilità crescente) si confronta con scenari sempre mutevoli (la crisi finanziaria, ma anche le opportunità offerta dai big palyers degli investimenti globali, quali Cina, India, Brasile) che ci indica come affronatre la complessità e la variabilità dei fattori in gioco; come rifuggire da semplificazioni o schematismi e come lavorare per mettere in campo politiche coerenti e condivise, flessibili nell’offrire un mix efficace tra le diverse azioni e modalità d’intervento, con l’obiettivo di aumentare la capacità competitiva del sistema delle imprese e dei territori.

Nota

In Umbria, le potenzialità offerte dalla “messa a valore” del territorio in una ottica da attrazione di IDE (investimenti diretti esteri) sono state colte dal governo regionale fin dal1996, quando, per la prima volta, sono state dedicate alle attività di marketing delle specifiche risorse comunitarie ed è stata identificata l’Agenzia regionale Sviluppumbria, quale soggetto attuatore di tali politiche: ruolo che si è rafforzato in seguito nel corso del periodo di programmazione del Fondo Europeo di Sviluppo regionale per il 2000-2006, con la riserva di una apposita Misura del Documento di Programmazione regionale proprio all’attrazione di investimenti esteri. Questa dotazione finanziaria ha consentito di elaborare degli specifici pacchetti localizzativi dedicati alla riqualificazione dell’offerta turistica della regione. I due progetti, Pietre d’Umbria e Essere Bene, costituiscono delle concrete opportunità di investimento in cui sono presenti i supporti offerti dal territorio e dal ruolo proprio di Sviluppumbria come soggetto coordinatore di tutti gli attori locali che concorrono alla realizzazione dell’investimento (istituzioni, uffici autorizzativi, altri operatori privati, servizi di supporto, istituti di credito); soprattutto offrono all’investitore il valore aggiunto di essere in Umbria e di sfruttare quegli elementi distintivi che fanno parte dell’identità regionale e possono così caratterizzare l’impresa stessa: l’acqua e la natura, le pietre e le impronte della tradizione culturale e storica.

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