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Sarà capitato a tutti di vedere in giro per le città e i negozi all’estero insegne e prodotti con nomi italiani sconosciuti in patria. Si chiama “Italian sounding”. Lo studia Linda Fioriti di Ismea, che definisce così il fenomeno: è la pratica di associare a prodotti agroalimentari nomi, immagini, combinazioni cromatiche, riferimenti geografici che evocano inequivocabilmente l’Italia a fini di commercializzazione ingannevole. All’interno dell’Italian sounding, ci sono strategie “trasparenti” e altre “equivoche”: nel primo caso, il consumatore sceglie il prodotto nella consapevolezza che non è italiano. Nel secondo caso, il prodotto si maschera da italiano. La classifica dei cibi più imitati riguarda soprattutto prodotti che in Italia sono contraddistinti da Dop, come: Parmigiano Reggiano, Mozzarella di bufala, Prosecco, Pecorino, Gorgonzola, Grana Padano, Prosciutto San Daniele, Asiago, Chianti, Salsa di pomodoro S. Marzano. L’Italian sounding “trasparente” può avere anche il ruolo di prodotto apripista e diffusore di emozioni italiane, il consumatore è quasi sempre consapevole che si tratta di prodotti ispirati all’Italia; mentre nel caso dell’Italian sounding “equivoco” il consumatore può essere convinto di acquistare prodotto italiano, oppure non essere neanche realmente interessato alla provenienza, ma comunque attirato dal prezzo generalmente più basso rispetto a quello dei prodotti made in Italy autentici. L’esistenza di un effetto prezzo è testimoniata dalla competitività di prezzo agli scaffali: la differenza di prezzo tra i prodotti Italian sounding e i prodotti italiani venduti all’estero è particolarmente marcata in Regno Unito e Germania (-69%), Belgio (-65%) e Cina (-50%). Insomma, l’Italianità costituisce un valore aggiunto non solo nel turismo, ma a patto che sia vera, come avrebbe detto Marc Augé.

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